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           Attorno alla nascita di Gesù di Nazareth si sono stratificati nei secoli significati profondi e complesse costruzioni simboliche. Lo stesso presepe vivente affonda le sue radici in una tradizione molto antica, per non dire ancestrale: la messa in scena della storia sacra della divinità che si adora, accompagnando questa recita con musiche e canti. Ai tempi dei Greci il frutto maturo di questa abitudine fu la tragedia; ancora nel Medioevo e nell’età moderna gruppi di devoti si organizzavano per rappresentare i misteri della Redenzione con sacre rappresentazioni, processioni animate o spettacoli musicali non recitati, come gli oratori. Fu un devoto d’eccezione, San Francesco d’Assisi, ad organizzare il primo presepe vivente a Greccio, con il contributo degli abitanti e del signore del luogo; narra la leggenda che nella mangiatoia vuota ad un certo punto apparve il divino Bambino, che sorrise al santo e ai presenti come svegliandosi dal sonno. Di generazione in generazione tale usanza è arrivata anche a Settimo e viene riproposta ormai da diversi anni dalle parrocchie e dalle associazioni; la vicenda rappresentata è notissima eppure, scartabellando tra le testimonianze dei secoli, si vengono a scoprire numerosi elementi che arricchiscono il sapore religioso e culturale di questa festa.

  La madre del protagonista. L’otto dicembre 2004 la Chiesa cattolica ha celebrato i 150 anni della proclamazione del dogma dell’immacolata concezione di Maria, in forza del quale i cattolici sono tenuti a credere che all’atto del concepimento la futura madre di Gesù venne esentata dal peccato originale, iscritto nell’umana natura. Ciò non risulta dal Nuovo Testamento, ma fin dai primi secoli venne spontaneo ai fedeli pensare che la madre del Salvatore dovesse essere una donna speciale, tanto speciale da renderla, appunto, immacolata. Non sempre i teologi approvarono questo culto, comunque popolarissimo tra i cristiani; nel 1849 papa Pio IX propose a tutti i vescovi una sorta di referendum in proposito e avendo ottenuto un consenso pressoché unanime, con la bolla Ineffabilis Deus proclamò l’immacolata concezione dogma di fede (1854). Nei Vangeli, da un punto di vista storico, si dice ben poco della Madonna. Dalle fonti dell’epoca possiamo dedurre che si trattava di una ragazza piuttosto giovane: era infatti abitudine che le donne venissero fatte sposare presto, anche a uomini più anziani di loro. Nella vita si occupava della casa e della famiglia.

  Il padre del protagonista e un matrimonio che non s’ha da fare. Giuseppe figlio di Giacobbe era, nell’ossatura tribale della società ebraica dell’epoca, un ben David, un figlio di Davide, l’antico re di Israele. Abitava a Nazareth di Galilea, a nord di Gerusalemme, e di quel gran principe conservava forse solo la discendenza: faceva infatti, dicono i Vangeli, il tékton, il carpentiere. Maria e Giuseppe erano fidanzati. Per il diritto ebraico questo era considerato il primo atto del matrimonio stesso: i due diventavano, appunto, “sposi”, termine italiano che denuncia il concetto di promessa e di legame (deriva dal latino spondeo, prometto). In un secondo momento si sarebbe perfezionato il contratto e si sarebbe celebrato il rito nuziale, preludio alla coabitazione. Tale fu la forma del matrimonio anche a Milano fino alla seconda metà del Cinquecento: i due fidanzati si promettevano fedeltà vicendevole ma tecnicamente non erano ancora sposati. Ma a Giuseppe succede un guaio: Maria rimane incinta e non di lui. La legge religioso - civile era molto rigorosa: se la promessa sposa non fosse stata trovata vergine, doveva essere buttata fuori di casa e lapidata (Deuteronomio, cap.22). Col tempo i giuristi avevano introdotto la possibilità del ripudio. Giuseppe, che era dìkaios (“giusto”), pensò chiaramente di avvalersi di questa legge, ma non volendo esporre Maria ad uno scandalo pubblico, decise di ripudiarla senza un atto formale. Così facendo la Madonna sarebbe rimasta per tutta la vita nella casa paterna, senza marito, disonorata e con un figlio illegittimo a carico: una ragazza madre.

  Due annunciazioni. La fonte del cosiddetto “vangelo dell’infanzia”, cioè il racconto relativo alla nascita di Gesù che conosciamo e che viene rappresentata nel presepe vivente, è costituita dai due soli Vangeli che contengono queste notizie, cioè quello di Matteo e di Luca. Matteo, più legato alla tradizione ebraica, sottolinea (cap.1, 18-25) la parte avuta da Giuseppe nella faccenda, che conosce una svolta al momento del sogno in cui gli appare l’angelo: quello che Maria porta in grembo, scrive Matteo, ek pnèumatòs estin hagìou (“è opera dello Spirito santo”). Il falegname crede alle parole dell’angelo: perfeziona il matrimonio con Maria, ma oùk egìnosken autèn héos éteken hyiòn, “non ebbe rapporti con lei fino al parto”. Decise subito di obbedire all’angelo, che lo invitava a imporre al bambino il nome Gesù, Salvatore: nel diritto ebraico l’imposizione del nome spettava al solo padre e significava la legittimazione del figlio. Chissà se in quei mesi Maria narrò a Giuseppe come era andata che lei, vergine, si trovasse incinta: era in casa, un giorno, quando le apparve Gabriele che le annunciò quello che stava per accadere.Questo racconto noi lo conosciamo dal Vangelo di Luca, medico ebreo di origine siriaca, forse pittore dilettante, che incentra i fatti precedenti alla nascita di Gesù sulla Madonna e non sul suo promesso sposo (Luca, cap.1, 26 – 38). Maria aveva una grande fede e un notevole senso pratico: non si stupisce del discorso della nascita del Figlio di Dio e che proprio lei era stata scelta per ospitarlo, ma pone solo l’obiezione che, non essendo ancora sposata, non aveva la possibilità di concepire. Chiarita la quale, si dichiara disponibile senza esitazione. Non credo che sospettasse, la Madonna, della propria immacolata concezione; Gabriele comunque la saluta con un gran bel titolo, kecharitoméne, “piena di grazia”.

  Pratiche amministrative e problemi di calendario. Per motivi teologici, ma anche perché non insensibile agli stilemi letterari, Luca inserisce la nascita di Gesù nel contesto storico e politico dell’epoca. Matteo infatti, dopo i dubbi coniugali di Giuseppe, passa subito a raccontare che, nato Gesù a Betlemme, vennero dei magi a riverirlo. Luca afferma che pochi mesi dopo la “doppia annunciazione” e dopo il ritorno di Maria dalla casa di Elisabetta i due, che risiedevano a Nazareth, furono costretti a partire per Betlemme, terra d’origine della famiglia di Davide, per farsi registrare in occasione di un censimento indetto dalle autorità romane. La terra di Israele, infatti, da qualche decennio era ormai coperta dall’ombra delle ali dell’aquila di Roma, che veniva rappresentata dal governatore della Siria; a Gerusalemme invece deteneva il potere un ufficiale inferiore, il procuratore. L’antico regno di Davide era però formalmente indipendente, cioè governato da principi (chiamati re, strateghi, etnarchi, tetrarchi) della dinastia ebraica degli Asmonei. Con l’appoggio di Roma Erode il Grande, basilèus (re) di Giudea al tempo della nascita di Gesù, ricostruisce il Tempio, che è quello dove si svolgeranno alcuni episodi della vita di Gesù e che verrà distrutto nel 70 d. C. dalle truppe di Tito intente a reprimere l’ennesima rivolta indipendentista degli Ebrei.

  Erode fu re di Giudea dal 37 al 4 a. C. Come è possibile allora che abbia ordinato la strage degli Innocenti e provocato un soggiorno di qualche mese in Egitto di quella che sarebbe divenuta la Sacra Famiglia? Il problema nasce nel sesto secolo quando il monaco ed erudito Dionisio detto il Piccolo fornì una cronologia comparata degli eventi della storia sacra e di quella profana, consacrando lo schema di divisione delle ere tenendo la nascita di Cristo come spartiacque. San Luca ci informa (3, 23) che én Christòs archòmenos hosèi etòn triàkonta, Cristo aveva circa (hosèi) trent’anni, quando si fece battezzare dal cugino Giovanni; Giovanni, dice poco prima Luca (3, 1ss.), uscì dal deserto e si mise a predicare “nell’anno decimoquinto dell’imperatore Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era procuratore di Giudea, Erode tetrarca della Galilea”, eccetera. L’anno quindicesimo di Tiberio coincideva con l’anno 782 dalla fondazione di Roma; Dionisio pensò letteralmente che Gesù avesse compiuto ventinove anni (“stava per iniziare i trenta”, dice il testo greco), dunque che fosse nato nel 753 di Roma (782 – 29 = 753). Il problema è che la cronologia “profana” funziona benissimo anche senza Cristo ed è indiscutibile che Erode il Grande regnasse in Giudea dal 716 al 749 di Roma, cioè dal 37 al 4 a.C.: la difficoltà viene sciolta interpretando in senso lato l’affermazione dei trent’anni di Gesù, interpretazione suggerita anche dalla lettera evangelica. Avere trent’anni era, nella società ebraica, segno di maturità e di pienezza di vita; il momento ideale in cui Gesù e Giovanni (di sei mesi più grande: Luca 1, 36) potessero iniziare la loro predicazione di maestri religiosi. Peraltro questa faccenda cronologica ci illumina in generale sul valore da dare alla storicità dei vangeli: agli autori di questi testi e ai primi discepoli di Cristo non importava tanto la precisione filologica, ma la dirompente irruzione nella storia del divino fatto uomo.

  C’erano dei pastori. Giuseppe e Maria arrivarono a Betlemme, piccolo villaggio della Giudea dove era nato il re Davide. Il censimento stava producendo numerosi spostamenti e tutti gli emigranti rientravano nei luoghi d’origine; c’era chi poteva farsi ospitare dai parenti il tempo necessario per farsi registrare, chi alloggiava nelle locande, chi si accontentava di ripari di fortuna. Giuseppe, discendente di Davide, pare non avesse un’anima di parente o amico che lo potesse ospitare, tenuto conto anche delle condizioni della moglie. Provarono alla locanda, il katàlyma, ossia il luogo presso cui si sciolgono i cavalli. All’interno neanche a parlarne; c’era forse posto fuori, dove si tenevano le bestie, benché Luca parli semplicemente di phàtne, mangiatoia, in cui venne deposto il bambino. Mariadunque partorì per strada o presso le stalle di un piccolo caravanserraglio orientale, dopodiché, sempre secondo il medico di Antiochia, un angelo, nella notte, comparve a dei pastori che si trovavano coi loro greggi nelle campagne attorno a Betlemme annunciando loro una grande gioia, formula che in latino (Annuntio vobis gaudium magnum) viene usata oggi per proclamare al mondo l’avvenuta elezione del Romano Pontefice. I pastori decisero di andare a Betlemme a vedere: e trovarono esattamente un bambino avvolto in panni in una mangiatoia.

  Vennero dei magi dall’Oriente. Luca prosegue il suo racconto con il ritorno dei pastori alle loro greggi: essi lodavano Iddio e parlavano di quello che avevano visto, quindi, nota argutamente G.Ravasi, furono i primi evangelisti. Matteo invece designa i magi per omaggiare per primi il neonato Gesù: segno che il racconto, se ha un qualche fondo storico, è ancora una volta più che altro simbolico. Matteo parla semplicemente di màgoi, magi, senza fornir numeri o attribuir loro titoli regi. Fin da Erodoto, cinque secoli prima, i magi erano i sapienti e i sacerdoti persiani, esperti in astrologia. Il segno della stella che li guidava è in proposito indicativo e richiama i culti astrali e solari praticati in Oriente. Dal numero dei loro doni la tradizione stabilì che erano in tre: numero troppo ghiotto per non esser caricato di significati. I tre magi sono un giovane, un adulto e un vecchio; un nero, un bianco e un giallo in rappresentanza delle tre etnie in cui si riteneva fosse diviso il mondo; provengono uno dall’Arabia, uno dall’Asia, uno dall’Europa; offrono l’oro per riconoscere la regalità di Cristo, l’incenso per la sua divinità, la mirra in preparazione della sua sepoltura (era una pianta aromatica da cui si ricavavano creme impiegate nel culto dei morti). Giustamente quei sapienti videro la stella ma non sanno dove andare precisamente: la tradizione L’impressione è che in realtà essi avessero l’aspetto di filosofi e viaggiatori orientali. E’ da notare che Gerusalemme non si prende gioco di loro quando sente chestanno cercando il nato Re dei Giudei: la profezia era sulla bocca di tutti, il Messia era atteso. Si credeva che egli avrebbe portato la salvezza a Israele: i più patrioti (e non solo) la identificavano con la fine del dominio romano e con la costituzione di un regime teocratico indipendente. Già sopra ho ricordato la distruzione del Tempio nel 70; non di rado infatti gli Ebrei si ribellavano seguendo un capo identificato con l’Unto dal Signore. Il più famoso di questi fu Simone Bar Kochba, (“figlio della stella”), schiacciato da Adriano all’inizio del II secolo. Quando non si ribellavano, erano continui gli attentati e le tensioni: la situazione ricordava per molti versi l’attuale medio oriente. Gesù stesso viene crocifisso per un motivo politico, cioè perché si era proclamato messia e questo faceva venire l’orticaria ai Romani e all’establishment ebraico: e viene giustiziato insieme a due soggetti che Matteo chiama lestài, ladroni, mentre Luca usa il più generico kakourgòi, malfattori, che può anche indicare questo tipo di terroristi. Barabba, ricorda l’evangelista, era incarcerato insieme con altri che èn stàsei phònon pepoiékesan (avevano compiuto omicidio durante una sommossa).

  Date queste premesse, anche Erode prende sul serio le parole dei magi e, architettato il suo piano omicida, li fa chiamare di nascosto: non vuole rischiare disordini prodotti dall’esaltazione popolare, teme forse un attimo anche per sé e ricorre ad un’astuzia tipica d’una corte orientale. Del resto egli a più riprese, narra Flavio Giuseppe, aveva fatto assassinare propri figli e parenti.

  Avvertiti però ancora una volta dall’angelo, i magi, che su consiglio dei dotti di Erode si erano recati a Betlemme, tornano in Oriente per un’altra via. Matteo dice che i magi trovarono Gesù in una oikìa, una casa. Forse, dopo l’arrivo a Betlemme, Giuseppe era riuscito a trovare una sistemazione migliore della mangiatoia e della stalla, il che ci autorizzerebbe a non connettere immediatamente natività e adorazione dei Magi: saggiamente la Chiesa celebra quest’ultima qualche tempo dopo il Natale, permettendo così la celebrazione, otto giorni dopo la natività, della festa della Circoncisione di Gesù, narrata da Luca dopo l’adorazione dei pastori, il 1 gennaio. In Matteo invece, dopo l’adorazione dei magi viene narrato da un lato un nuovo sogno di Giuseppe, nel quale l’angelo lo invita a fuggire in Egitto, dove rimane per qualche tempo cioè fino almeno al 4 a.C., anno della morte di Erode. Gesù dunque dovette nascere, diciamo, attorno al 7 – 6 a.C: date probabili per il censimento che costrinse Maria e Giuseppe al viaggio da Nazareth a Betlemme. Dall’altra lato viene raccontata la furiosa e sanguinaria reazione del principe della Giudea, che ordina l’eliminazione dei neonati e dei lattanti di Betlemme.

  Ma era veramente il 25 dicembre? Clemente Alessandrino (150 – 216), uno dei padri della Chiesa, ammetteva candidamente di ignorare la data di nascita di Gesù: e con lui i primi cristiani. Nell’antica terra di Israele la pastorizia veniva praticata in primavera e in estate: la Pasqua, celebrata tra marzo e aprile, serviva anche ad aprire la stagione della transumanza e del pascolo. Perché allora, a partire dal III – IV secolo, la nascita di Gesù è collocata in pieno inverno? Dobbiamo spostarci da Gerusalemme a Roma, ma non la Roma che ci torna in mente dai ricordi di scuola. Nei secoli dell’Impero la civiltà romana, nelle alte e nelle basse sfere, conobbe una forte diffusione di culti di origine orientale, tra i qualiil Cristianesimo, all’inizio confuso col Giudaismo, era uno dei tanti. Sabina Poppea, moglie di Nerone, proteggeva gli Ebrei e ne seguiva le usanze; lo storico Tacito parla del credo dei Cristiani come di una exitiabilis superstitio, una funesta superstizione, e ne descrive adepti e dottrina come cose abiette, degne del più basso volgo. Queste religioni si diffondevano grazie a santoni e predicatori itineranti, come San Paolo e gli altri apostoli.

  In alcuni casi invece venivano promosse dagli stessi imperatori, come Aureliano (270-275), che introdusse il culto del Sol Invictus, venerato come manifestazione della Divinità che governa il cosmo, come l’Imperatore ormai dio anche in terra governa il mondo.Aureliano aveva fissato la solennità del Natalis Solis Invicti al 25 dicembre, quando dopo il solstizio il sole torna ad essere sempre più visibile all’orizzonte; venivano celebrate feste sontuose che affascinavano anche i cristiani di Roma. Del resto la dottrina non era ancora ben definita e le diverse credenze e filosofie erano ancora caratterizzate da una certa osmosi l’una con l’altra. Così, nel IV secolo, papa Leone Magno (quello che fermò Attila) racconta seccato che molti battezzati, prima di entrare in San Pietro, facevano un inchino al Sole. Fu quindi naturale collegare la nascita del nuovo sole dei credenti, Gesù, con il sole del culto imperiale: la storia del Cristianesimo è piena di usanze e feste pagane rese con maggiore o minore naturalezza cristiane. Non si avevano, ancora una volta, preoccupazioni di tipo logico, ma teologico: in mancanza di una data nota, si ricorse alla data del Sole Invitto. Non è del resto piena la Scrittura di paragoni tra Dio e la luce? Non è forse Gesù il “sole che sorge” che verrà a visitare i credenti, come dice Zaccaria quando riacquista la parola alla nascita del figlio Giovanni (Luca 1, 78)?

  Celso: una versione alternativa. Con la diffusione del Cristianesimo non si intensificarono solo le persecuzioni, sulle quali bisognerebbe spendere qualche parola. Cominciarono anche numerose battles of books: saggisti e polemisti si misurarono sulla nuova religione, dando così avvio, nella letteratura cristiana, al genere dell’apologia. Il primo attacco di un certo peso venne alla religione dei Cristiani da Celso, filosofo platonico – stoico che attorno al 180 (all’epoca di Marco Aurelio e Commodo) scrisse un Discorso verace (Alethès Lògos) nel quale riporta un’interessante versione della nascita di Gesù che evidentemente doveva essere diffusa alla sua epoca. Gesù era sì originario di un misero villaggio della Giudea; sua madre era una povera filatrice che era stata cacciata dal marito, di professione artigiano, con l’accusa di averlo tradito e di essere rimasta incinta (in un altro passo Celso scrive che l’amico di Maria sarebbe stato un soldato di nome Panthera). La donna visse miseramente con il bambino fin quando quest’ultimo, divenuto un giovanotto, emigrò in Egitto per cercar lavoro: qui imparò i culti e le arti magiche di cui gli Egiziani, per tutta l’antichità furono ritenuti indiscussi maestri e tornato nella sua terra, si mise a praticarle ottenendo l’ammirazione del popolino e proclamandosi Dio. Varie erano le voci sulla prodigiosa nascita di Cristo, difficilmente digeribile eppure creduta così fermamente dai cristiani: Tertulliano, apologeta pure del II secolo, ricorda che girava la voce secondo cui Gesù fosse figlio di una questuaria, una prostituta. E’ interessante osservare come queste dicerie provenienti dall’antichità e parallele alla diffusione del racconto evangelico diano per scontata l’esistenza storica di Gesù Cristo che, guardato da un punto di vista storiografico, è forse l’”uomo comune” più famoso e documentato dell’antichità. Quello che però segna il discrimine tra fiducia nell’esistenza storica e fede vera e propria, come giustamente fa capire S. Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (cap.2, 1 – 5 e soprattutto nell’intero cap.15), è il fatto della morte e resurrezione di quell’uomo così particolare.

 

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