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    Diceva Costanzo Antegnati, esponente di una delle maggiori famiglie di organari del Cinque-Seicento lombardo, che l’organo, in una chiesa, deve servire per “ lodare et magnificare il grande Iddio, e non per adoptarlo in altri usi profani”.

  E’ difficile sentirsi in colpa, tuttavia, se per una volta, o anche più di una, “il re degli strumenti” viene utilizzato per scopo non strettamente liturgico. Anche perché non manchiamo di rispetto al luogo sacro, come faceva Puccini che, giovane organista del duomo di Lucca, nelle sue improvvisazioni mescolava armonie sacre e arie d’opera.Ma qual è l’origine dello strumento che si trova oggi nella parrocchiale di Santa Margherita?

  L’attuale chiesa di Settimo fu edificata nel 1890-1891. I parroci Villa e Colombo, dovendo far fronte alle spese della fabbrica, non potevano occuparsi anche di questo supporto importante, ma non fondamentale, delle funzioni liturgiche.

  Lo strumento venne perciò messo in opera soltanto nel 1907 dal parroco Carlo Pezzini: in quell’anno infatti “la campagna diede buonissimo raccolto e il parroco col consenso del popolo potè mettere l’organo che fu fatto dalla ditta Aletti di Monza”. Le abbondanti offerte dei parrocchiani permisero anche la decorazione della chiesa, ad opera del “pittore Galli di Milano”.

  Don Carlo era arrivato in paese l’anno precedente, dopo dieci anni di coadiutoria presso la vivace parrocchia di Santa Maria sul Naviglio (Grande). Dalle sue parole pare che non avesse molto gradito il trasferimento in una località che, testualmente, gli era stata descritta “con colori che certo non meritava”.

  Forse proprio per adeguare la nuova chiesa ad un maggior stato di decenza volle da subito impegnarsi per avere l’organo; d’altra parte, in seguito, egli compì numerose altre opere, come il rifacimento completo delle campane appena dopo la conclusione della Grande Guerra.

  Ma non era quello il primo strumento di cui si erano udite le note in Settimo.

  Il 16 febbraio 1738, infatti, la locale confraternita del Santissimo Sacramento ne commissionò uno all’organaro milanese Giovanni Paolo Biraghi.

  Nel contratto vennero precisate le caratteristiche tecniche dello strumento e diverse altre condizioni: il trasporto di esso, come pure il sostentamento del Biraghi e dei suoi assistenti per tutto il tempo della loro permanenza in paese per la sua messa in opera, erano a carico dell’acquirente.

  Si trattava di una spesa non indifferente per l’epoca: in totale 1.100 lire, pagate in quattro anni non dal parroco Giuseppe Marinoni ma dalla confraternita stessa.

  La chiesa parrocchiale, infatti, era un bene del paese e non del parroco, e pertanto era gestita dai confratelli che nel paese erano i rappresentanti, per così dire, sociali. Parte dell’ingente spesa fu ammortizzata cedendo al Biraghi “tutto l’Organo Vecchio che si ritroua in detta chiesa, con patto però (...) che tutte le canne (...) il sudd.o sig. Biragho sia obligato a servirsene di mettere nel d.to Organo Nuovo (…)”.

  L’organo del Biraghi, dunque, aveva un predecessore; alcune testimonianze autorizzano a pensare che la chiesa fosse dotata di organo già dalla fine del Cinquecento. Dell’allora curato don Pietro Bossi (1570-1614 circa), infatti, si dice che sapeva “sonare de organi”, oltre che numerosi altri strumenti musicali quali il flauto, la cornamusa, il clavicordo (un antenato del pianoforte), che teneva in casa, attirandosi le reprimenda dell’arci vescovo: non è che con quegli strumenti, nei dì di festa, accompagnava le danze dei suoi parrocchiani? D’altra parte il Bossi era anche un provetto cantore, qualità non da poco visto che la prassi liturgica dei secoli passati abbondava di “messe e vespri in canto, litanie, uffici”.

  Il Bossi infatti “canta i Vespri ogni festa aiutato dai Poppuli (e) ogni dì canta la Compieta”.

  L’organo, dunque, accompagnava questi riti. E’ ovvio, a questo punto, che ci voleva un organista; ma all’uopo poteva bastare un cappellano, o addirittura uno del paese, magari l’oste o qualche artigiano, che conoscesse a memoria i “canti fissi” della liturgia. Ci voleva anche un tecnico, ossia “quello de’ mantici”: era un ragazzo che veniva ricompensato con una milanesissima “buona mano”, registrata accuratamente tra le passività del bilancio della chiesa.

  Di quei canti fissi la memoria è piena: O Sacro Convito, O del Cielo gran Regina, Sacro Cuor d’Amor ferito. A Nostro Signore, tuttavia, si parlava in latino: nonostante la loro complessità testuale e melodica, alcuni inni o salmi, come l’O Crux spes unica, il Magnificat, il Salve Regina, erano notissimi e cantatissimi. Ad esempio negli anni ottanta del Cinquecento il popolo di Settimo percorreva il suo territorio cantando inni latini durante i riti propiziatori delle Rogazioni.

  Ma non era facile come parlare in dialetto. Verso il 1680 il parroco segurino Cristoforo Villa fu incriminato di aver dato delle “sfaciate” a tre ragazze del paese che gli avevano disobbedito: il sacerdote, infatti, per evitare che Cicerone e San Tommaso d’Aquino si rivoltassero nella tomba, aveva loro “inhibito che non dicessero il pange lingua gloriosi, perché non lo sanno dire”.

  Più apprezzati dovevano essere i confratelli del Santissimo. Ad essi toccava il compito di aiutare il curato nel canto Ufficietto della Madonna, che non a caso era il libro di lettura su cui il maestro Carlo Ferri insegnava a leggere ai suoi alunni di Monzoro a fine Settecento. Le voci di questi e dei loro coetanei in ogni paese, poi, allenate all’osteria, prorompevano in mirabili Sanctus e Alleluia.

  La riforma liturgica ha cambiato il repertorio; l’abitudine ha reso talvolta vergognoso il cantare in chiesa.

  Talvolta gli antichi organi languiscono nella polvere.

  Ogni iniziativa che li fa rivivere, specialmente dove se né perso l’uso liturgico, è la benvenuta.

 

 
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