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      Brutto periodo, la prima metà del Cinquecento. Erano gli anni in cui gli eserciti di Carlo V, Francesco I di Francia, del Papa, di Venezia, di Firenze si combattevano per imporre all’Italia ciascuno la propria versione di pace. La spuntò Carlo V, che nel 1535 si mise in capo anche la corona di duca di Milano; ma la guerra durava da fine ‘400 e un’idea di che cosa fosse si può avere dall’ultimo lavoro di E. Olmi, Il mestiere delle armi. L’Imperatore continuava a chiedere denari ai suoi Stati, ma Milano era allo stremo: il governatore, il napoletano Marino Caracciolo, gli scrisse, sventolando bandiera bianca, che

“Dio non me ha dato vertù de far miraculi”.

  Ma qualcuno ci provava e magari ci riusciva. La guerra, infatti, è anche un grosso affare economico: il meccanismo di cui Cesare era costretto a servirsi per pagare i suoi soldati, cioè farsi anticipare le somme assegnando poi ai creditori dei “titoli di Stato”, dei cespiti di entrata, dei feudi determinò le fortune di molti uomini d’affari milanesi e non solo.

  Agostino d’Adda veniva da una famiglia di modesti gentiluomini brianzoli. L’inizio delle fortune della casa spetta a suo padre Francesco, che aveva intrapreso un florido commercio di tessuti con la Spagna. Ciò significava denaro, ma anche conoscenze: in particolare a Genova, che nel ‘500 e nel primo ‘600 fu la capitale della finanza europea. Agostino ereditò l’azienda paterna, solo che all’attività di mercante sostituì sempre più quella di finanziere in grandee in piccolo. Prestava a cardinali, governatori, comunità e allo stesso Imperatore, cercando però di non esporsi troppo direttamente per evitare i frequenti guai che capitavano in un’attività in cui, come nelle speculazioni di borsa, i grossi rischi erano pari ai grossi guadagni: il governatore de Leyva, costatando che in occasione di un prestito aveva contribuito con solo cinquemila scudi, sbottò:

“E’ persona che ne potrìa dar cinquantamil!”

  Fu così che insieme col cugino Pagano e con i genovesi Domenico Sauli e Tommaso Marini divenne uno dei personaggi più immanicati nella Camera milanese (l’allora ministero del tesoro e delle finanze). Iniziò anche a comprare terra: non bastava infatti essere ricchi per essere nobili e stimati. Bisognava avere beni sotto il sole. Le attenzioni sue e dei parenti si appuntarono dunque, tra l’altro, su Settimo e Seguro, dove la madre, Angela Balbi (sorella di quel Fabrizio che fece ricostruire la chiesa di Santa Margherita nel 1534) aveva già portato in casa, come dote, svariate centinaia di pertiche di terra.

  Alla sua morte i suoi agenti generali Foppa e Abbiati fecero e rifecero i conti e scoprirono che lasciava all’erede, il fratello Costanzo, un patrimonio di più di duecentomila lire; ma poi saltò fuori che ce n’erano altrettante...in nero.

  Costanzo si diede a fare il nobile. Combattè contro i protestanti tedeschi e con un congruo esborso si comprò la contea di Sale, un paesone del Tortonese in posizione strategica lungo la strada per la Superba.

  Fu probabilmente lui, o suo figlio Francesco II, a costruire il palazzo oggi sede del comune di Settimo Milanese; entrambi ingrandirono considerevolmente i possessi locali.

  Francesco addirittura, che all’inizio del Seicento era considerato uno dei cavaglieri più in vista di Milano, risiedette stabilmente a Settimo e vi morì nel 1644. Nella villa ospitava la sua piccola corte di capitani e letterati; vi sistemò la sua quadreria (che forse comprendeva un Raffaello che lo scrittore Pietro Aretino aveva donato a suo zio Agostino); le sue figlie si sposarono in Santa Margherita.

  Gloria e splendore d’armi e di denari; a fine Seicento poi si posò sulle spalle di un d’Adda anche il galero cardinalizio. Ferdinando I, infatti, fu nunzio apostolico presso Giacomo II d’Inghilterra e si trovò impegolato nella rivoluzione del 1688; dovette fuggire da Windsor travestito da lacché del duca di Savoia. Tornato a Romafu creato cardinale; dovrebbe essere sepolto in San Carlo al Corso, la chiesa dei Lombardi nella città eterna.

  La memoria dei Settimesi corre però a Ferdinando II, l’abate fondatore della Causa Pia. Personaggio un po’ strano, probabilmente malato di nervi, credeva di essere costantemente spiato e oggetto delle malelingue. Si sentiva inoltre perseguitato da correnti d’aria, tanto da dormire, anche in estate, accanto al camino. Visse per lunga parte dellasuavita isolato nella villa di famiglia di Arcore. Alla sua morte la linea dei d’Adda di Sale non aveva più discendenti e anche per questo decise di devolvere tutti i propri beni ad un ente benefico attivo nei comuni dove era possidente: servizio medico, doti per nubende povere e istruzione elementare erano gli scopi che indicava nel testamento, creando una sorta di welfare state nei nostripaesi, realmente invidiabile dato il suo carattere pionieristico (dovevano ancora passare decenni prima che questi servizi fossero definitivamente assunti dallo Stato o da enti pubblici). Morì il 24 Agosto 1808 e le sue ossa riposano nella cappella all’ingresso di Settimo da Seguro.

  E le donne della famiglia? Molte monache, innanzitutto. Molte sposate eccellentemente: Bradamante di Francesco II si sposò con un ricchissimo Rasini; Barbara, sorella dell’abate, divenne principessa Barbiano di Belgioioso. Possiamo ricordare anche la marchesa Anna Cusani, madre del cardinale Ferdinando: il marito (Costanzo II) morì prestissiimo e lei si ritrovò capo di casa nel turbine di guerre e crisi agricole di metà Seicento. Non si perse d’animo e ingaggiò varie battaglie legali per difendere la casata; ebbe forti contrasti con altre donne proprietarie in Settimo, le monache di Sant’Agnese, con reciproche accuse di evasione fiscale.Non bisogna neanche dimenticare poi la povera Bianca Beccaria, contessa di Mortara, moglie di Costanzo I. Essendo sterile, dovette sopportare tutte le avventure del marito alla disperata ricerca di un erede, che fu Francesco II di cui si è detto. La madre di questi era una cameriera, Caterina da Gallarate, che per tutto il tempo in cui fu la favorita del conte restò nel palazzo milanese e tutti dovevano starle alla larga perché era “proprietà privata”.

  Entrando negli odierni uffici comunali, possiamo figurarci tutti questi personaggi che hanno popolato quelle stanze e quel giardino (originariamente all’italiana, con canali e peschiere); possiamo immaginare i Settimesi che vi lavoravano come servitori; alcuni di loro vi trovarono anche l’amore, visto che i registri matrimoniali della parrocchia riportano nozze tra locali e persone provenienti da Arcore, Valgreghentino e altri luoghi dove la famiglia aveva beni.

  Con l’istituzione della Causa Pia il palazzo divenne abitazione dei fittabili della proprietà settimese, la famiglia Bianchi: ma questa è un’altrastoria.

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